Letizia Bindi, La via della transumanza 2019. Il gregge di Silvestro Scialanga davanti alla Casa della Montagna (22/09/2019)

Apparse per la prima volta intorno agli inizi degli anni Ottanta in Inghilterra e Regno Unito con il nome di Parish Maps, esse rappresentarono, di fatto, il frutto maturo della corrente scientifica e per certi versi anche politica di Common Ground (www.commonground.org; Smith 2006; Maggi 2009; Alliegro 2011; Magliacani 2015; Bindi 2017), un gruppo relativamente esteso di scienziati sociali, esperti di territorio e animatori di comunità interessati a intercettare tendenze e bisogni delle comunità locali e a facilitare con la propria azione il loro empowerment e la presa di coscienza dei patrimoni condivisi dalla collettività. Col tempo il lavoro iniziato allora con mappe ingegnosamente e creativamente disegnate dalle persone del posto e costruite con il loro diretto coinvolgimento, si sono intrecciate alle idee inerenti la salvaguardia e valorizzazione dei paesaggi culturali e dei patrimoni materiali e immateriali delle comunità locali, seguendo le vie di sviluppo del dibattito nazionale e internazionale, socio-culturale e normativo, ma anche economico sugli ecomusei, i gruppi di azione locale e le diverse associazioni e soggetti privati e pubblici impegnati a livello locale. In un tempo in cui la conoscenza specifica e profonda dei luoghi e dei territori sembra essere sacrificata a logiche sempre più globali e generalizzanti, le Mappe di Comunità riportano al cuore dell’azione scientifica, ma anche politica e sociale, un sapere sul territorio fortemente radicato nei confini di un paese, attento però al confronto, ai saperi specifici ricostruiti con puntualità e alla ricostruzione complessa del senso di appartenenza a un gruppo, a un luogo, a delle memorie, a dei valori specifici (Hague-Jenkins 2005). L’idea che sta alla base di questo approccio pensa ai territori secondo logiche non puramente ed esclusivamente geografiche o amministrative e recupera con forza un’idea dei luoghi come intreccio di significati e rappresentazioni condivise, partecipate, intensamente caricate di simboli e implicazioni affettive. Solo restituendo tutto questo insieme di valori condensati intorno agli insediamenti attraverso il capillare e diffuso lavoro di realizzazione di mappe condivise possiamo sperare di comprendere e restituire il complesso lavorio che ogni collettività giornalmente conduce per dar senso alla terra che abita, ai luoghi che le fanno da scenario, alle memorie, alle aspettative e talora, ai timori per il futuro che condivide. Per far questo vengono messi a frutto e a sistema gli strumenti classici della ricerca socio-antropologica e storica – storie orali, produzioni individuali, storie di vita (disegni, immagini, archivi fotografici o audiovisivi e ancora scritture, diari privati, archivi parrocchiali e comunali, memorie familiari, etc.) attraverso i quali la comunità definisce, rappresenta e si interroga su stessa nella specifica e feconda relazione innescata dal patto etnografico che poggia lo sguardo su una data realtà comunitaria per interrogarlo nell’interstizio tra osservatore e osservato che a sua volta, però, interroga e interloquisce, non più inteso come ‘muto della storia’ (De Martino 1959) da narrare da parte dell’erudito e dal ricercatore colto, ma attore paritario e interattivo di una ricostruzione identitaria negoziale che è al contempo culturale, sociale, politica e relazionale (Lave-Wenger 1991; Cornwall – Jewkes 1995; Wenger 1998).