Come documenti di quell’antica rustica musa, trascriviamo alcune ottave di Angelo Felice Maccheroni, di Piedelpoggio (1801-1882) e due lettere in ottave scritte agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso da un pastore della frazione di Villa Massi.

Dalla “Pastoral Siringa” del Maccheroni:

Quando poi giunge di Settembre il fine,
Che ogni giorno dal ciel la pioggia viene,
Vedendo nevicar per le colline,
Dice il pastor: Quà non si stà più bene;
D’uopo è fuggir dalle pendici alpine,
Ed in Maremma ritornar conviene;
Per cui Paolo, Francesco e Giovannone,
L’uno e l’altro a partir già si dispone.

Secondo l’antica tradizione, la partenza e il ritorno dalla transumanza avvenivano in concomitanza con le due feste di S. Michele Arcangelo la prima delle quali era celebrata il 29 settembre, giorno che commemora la dedicazione della prima chiesa dedicatagli a Roma, nell’anno 530, da papa Bonifacio II. La seconda, l’otto di maggio, celebrava l’apparizione avvenuta, nel 663, alla vigilia della battaglia di Siponto combattuta dai Longobardi del ducato di Benevento contro i Saraceni. In quel giorno l’Arcangelo annunciò all’esercito cristiano la vittoria. Per quanto riguarda Leonessa, forse per le condizioni climatiche, il ritorno ‒ fin dove giunge la memoria degli ex-pastori ‒ avveniva in prossimità della festa di S. Giovanni Battista, da cui il detto: «sangiovanni: ‘rriano li panni» riferito ai panni sporchi di quanti, dopo giorni di cammino, tornavano a casa. La coincidenza delle date della transumanza con le due feste dell’Arcangelo – ancora vigente in alcune regioni d’Italia, come ad esempio in Valle d’Aosta ‒ è dovuta al ruolo di protettore attribuito all’Arcangelo. Il medesimo ruolo, nell’antichità, spettava a Ercole come dimostra il culto dedicato al semidio nel tempio italico-romano di San Silvestro, sul cammino delle transumanze che dall’altopiano leonessano raggiungevano Norcia e l’imbocco dell’antica via diretta a Spoleto, e viceversa in estate. Il lungo cammino attraversava luoghi inospiti infestati da potenziali nemici visibili e invisibili. Il suo protettore non poteva non essere un eroe distruttore di mostri, come Ercole ‒ che tra un’eroica impresa e l’altra allevava bovini ‒ o un Arcangelo guerriero capace di tenere a bada l’angelo ribelle da cui ogni male, disgrazia, incidente e malattia provengono.

Quando poi di partir prossima è l’ora
Giovanni mette il basto alla somara,
Pietro dice alla figlia: Addio, Leonora,
Vòlto alla sposa: Addio, consorte cara;
Ed ella, ch’il partir di lui l’accora
Di accompagnarlo non si mostra avara,
Nel distaccarsi poi gli fa premura
Che le scriva sovente, e si abbia cura.

Cristina Ianniello, Rievocazione Transumanza del 2012 (2014)

Lu colle sparticore

Uno dei luoghi deputati agli addii era un colle poco lontano dalla frazione di Albaneto, che aveva meritato il nome di “Sparticore”: dove il cuore “se spartisce”, si spezza. Dalla cima del colle, nel trapestio delle greggi e il concitato abbaiare dei cani, spose, figli e parenti salutavano i loro cari che avrebbero rivisto dopo otto mesi quando sui monti indugiano gli ultimi lembi di neve e nei boschi già canta il cuculo. Tornati a casa dopo l’addio, per giorni, fino a quando la transumanza non fosse giunta a destinazione, si evitava con cura di spazzar casa, altrimenti i cari assenti non avrebbero fatto ritorno, o ritardi e disgrazie lo avrebbero reso penoso. Dalla sera della partenza, i nomi dei congiunti lontani sarebbero stati ricordati nel rosario quotidiano, intonato dal più anziano della famiglia riunita attorno al focolare. Un autorevole studioso, George Dumézil, ha formulato l’ipotesi che la sabina Vacuna, la Madre Terra vacua ormai di frutti ‒ cui dopo gli ultimi raccolti erano dedicati i rituali fuochi d’autunno (“uacunales foci”) e tavole imbandite ‒ fosse anche protettrice degli assenti durante la loro vacanza e ne propiziasse il ritorno.

Da quei villaggi, in questo tempo ogni anno
Parte col padre il figlio, il zio col nonno,
Restano appena quei che più non hanno
Lena e vigor qual pria, per cui non ponno;
Costoro in guardia delle donne stanno,
Gli altri, conforme i lor bisogni vonno,
Uomini adulti e giovani di senno,
Vanno per quella via ch’ora vi accenno.

Il cammino seguito dalle greggi che si recavano nella campagna romana, da Leonessa, percorrendo la Vallonina, attraversata Valpagana, valicava il Monte Corno scendendo verso Poggio Bustone e Cantalice. Attraversata la pianura reatina, percorrendo la Salaria, le transumanze si dirigevano a Nerola. Da lì, passando per Monterotondo, raggiungevano la campagna romana. Un percorso alternativo, seguendo il corso del Rio Fuscello che nasce ai piedi del Monte Tilia, raggiungeva Polino attraverso l’antica via che univa il borgo medievale fortificato del Fuscello al castello di Polino.
Secondo un’antica tradizione abruzzese (Leonessa rimase aquilana fino al 1928) il bordone che accompagnava i transumanti doveva essere di nocciolo, legno dotato del potere di mettere in fuga i serpenti. Il greco Dioscoride raccomandava di portare nocciole nella cintura per allontanare gli scorpioni e una leggenda germanica raccolta dai fratelli Grimm narra che la Vergine, assalita da una vipera mentre era intenta a coglier fragole per il suo Bambino, trovò rifugio tra i rami di un nocciolo. Riconoscente, benedì l’umile alberello che, da allora, fu dotato del potere di tener lontane le serpi.

Su gli aridi finocchi ove ha già spasa
Doppia pelle, il pastor dorme e riposa,
E con la mente di pensieri invasa
Sogna la prole sua, sogna la sposa;
Si desta e pensa serio alla sua casa,
Che lasciolla del tutto bisognosa,
E quest’è quel che il cor gli affligge in guisa
Che pargli aver da sen l’alma divisa.

Il giaciglio dei pastori ‒ la “rapazzola” ‒ era composto da un graticcio di rami poggiato su “forcine” di legno infisse nel terreno. Sul pagliericcio di fieno o erbe silvestri, qui preparato con rami di finocchio selvatico, venivano stese (“spase”) pelli di pecora. A volte, il pensiero della famiglia lontana impegnata nella quotidiana impresa del sopravvivere, interrompeva il meritato sonno del pastore e questi, a lume di candela o nelle brevi pause concesse dal lavoro, affidava alle lettere i suoi pensieri:

Dar notizia di me ti posso intanto;
Sino al presente dì bene mi sento
Solo mercè del Nume unico e santo,
Che adorno fè di stelle il firmamento;
Ma rivolgendo il piè per ogni canto
Passo li giorni miei, fra pena e stento,
E quel che mi rende il cor consunto,
La nostra dura lontananza appunto.

Il lavoro diventa più faticoso se il cuore è oppresso dalla pena: nel caso del pastore, dalla nostalgia del borgo natale, dal vuoto creato dalla lontananza dei cari. Per quanto riguarda gli stenti, l’alimentazione del personale di servizio, oltre alla razione giornaliera di pane e ricotta, pasta, sale, legumi, comprendeva un po’ di carne nei giorni di festa, o quando un capo di bestiame moriva, secondo il detto: «Acquacotta, ricotta e pecora morta». “Acquacotta” dichiara che il principale ingrediente del pasto serale era l’acqua calda con l’aggiunta di qualche erba di campo, versata sul pane raffermo e condita (nelle versioni di lusso) con una spolverata di cacio pecorino. «Quannu lu bufurghittu fa baldoria, / bròdu de remolaccia e de cicoria». Il ramolaccio è il Raphanus raphanistrum L.; la cicoria è il tarassaco, o dente di leone. In ogni caso, per via della quantità di pane ammollo, la frugale zuppa riempiva la pancia: «Acquacotta, pane spreca e trippa abbotta».

Se vuoi disacerbar, diletta sposa
Quella pena crudel ch’ho in petto chiusa,
Alla lettera mia rispondi in prosa
Senza punto indugiar conforme si usa,
Dammi nuova di te se qualche cosa
Ti occorre mai, non dei restar confusa,
Al tuo consorte il tuo voler palesa,
Che non guarda per te veruna spesa.

Il pastore chiede alla sposa di rispondere alla sua lettera, non in ottave, certo, ma nella prosa stentata di chi appena sa scrivere. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, spose e fidanzate chiedevano al “vetturale” incaricato di consegnare la corrispondenza, o al parroco, di trasformare la loro voce in segni. Il compenso consisteva, in genere, in quattro uova e un timido “grazie” balbettato con la vergogna d’essere ignoranti e di aver dovuto affidare a terzi i propri sentimenti e le questioni di famiglia. D’altro canto, neanche i pastori compositori di ottave, spesso, sapevano scrivere ed erano costretti a dettare i loro versi a qualcuno che sapesse tenere in mano la penna. Le ariosteggianti ottave di Angelo Felice Maccheroni furono dettate a un “vergaro” che, verso per verso, le trascrisse. Un’impietosa, vecchia strofetta, si burlava della verve letteraria dei pastori: «Lu pecoraru quanno va ‘n maremma / se crede d’esse’ giudice e notaru: / la cóva (coda) de la pecora è la penna, / lu sicchiu de lu latte è ‘l calamaru», o, in modo più diretto: «la groppa de la pecora è la carta, / ce scrive ‘n accidenti che lu spacca».

Rispetta i cenni miei, vivi lontana
Dai Proci, qual Penelope in persona
Guardati conversar con gente strana
Ancorché avesse in mano la corona,
Per la casa propensa, ai figli umana
Mostrati ognor, qual madre ottima e buona,
Vivi i giorni così di gioja piena,
Di me non ti pigliar veruna pena.

Dei saluti del prete ti ringrazio,
Meglio sarìa non me ne dessi indizio,
Non ci parlar neppur per breve spazio
Che potrebbe recarti un pregiudizio;
il prete, moglie mia lo scrive Orazio
Dice addrizzar gli affari a Cajo, a Tizio;
Va nelle case altrui quando stà in ozio
Per addrizzare il proprio suo negozio.

Nel caso si fosse lasciata a casa una moglie giovane o una fidanzata, tra le pene suscitate dalla lontananza vi era la gelosia che pungeva più delle pulci sotto i rustici panni. Se l’antico detto «Lontano dagli occhi, lontano dal cuore» rispondeva a verità, otto mesi di forzata separazione avrebbero offerto ai malintenzionati una ghiotta opportunità, e obbligato l’amante o lo sposo lontano a percorrere un lungo sentiero irto di rovi. Devoto cristiano, ma imbevuto di anticlericalismo garibaldino, Maccheroni punta i suoi strali contro il prete del villaggio. Ma il poeta-pastore non è l’unico: un antico “dispetto” cantato dai mietitori ‒ molti provenienti dalle Marche ‒ recitava: «Mo ch’è vinuta l’ora de lu mète / povera bella mia, chi sse la gode? / e se lla gode quel boia de lu prete», a volte con la chiusa «oppuramente quarghe sbirru o frate».
Ai crucci del marito, la moglie risponde lamentando la scarsezza di grano per il pane e la pasta; la mancanza di farro e lenticchie; la penuria di legna: ormai è primavera, nei campi il grano germoglia ma i monti sono ancora coperti di neve. E fa freddo. Ma ciò non fa meraviglia, del clima locale si diceva: «Leonessa: undici mesi de friddu e unu de friscu». Tra le buone notizie: il peso del porcello, il parto della pecora e l’inizio d’una nuova gestazione della sposa fedele. Il maiale, nel lungo periodo invernale, offriva preziose proteine animali. Si usava dire: «Nengua, nengua s’ha da ninguà, so ‘ccisu lu pórcu, so fattu lu pa’, Nevichi pure, se deve nevicare, ho ucciso il maiale e ho fatto il pane». Il gregge domestico, composto da qualche pecora e un paio di capre, d’inverno rimaneva nella stalla, a primavera ruzzava sui prati. Non c’era bisogno di portarlo a svernare nella campagna romana, o in maremma, come bisognava fare con le sterminate greggi dei Torlonia, dei Massimo, o di altre famiglie della nobiltà romana d’antico blasone. Per quanto riguarda l’arrivo d’un nascituro, la notizia in sé era lieta ‒ in campagna c’è sempre bisogno di braccia ‒ ma con l’incognita del sesso: se fosse nato un maschietto, l’evento sarebbe stato celebrato con suonatori d’organetto e poeti a braccio, vino, pane e prosciutto offerti ai passanti fuori dell’uscio di casa. Se fosse nata una femmina, il prosciutto sarebbe stato sostituito da una “spalletta” di minor pregio, senza suonatori né poeti. Nelle famiglie dedite alla pastorizia, i figli nascevano in maggior parte tra marzo e maggio: prima di giugno non c’era modo di fare l’amore e, appena tornati a casa, l’amore era la prima cosa che si faceva. Un detto recita: «Chi nasce de gennaru / n’è fiju a ‘n pecoraru».

Coi figli insieme anch’io vivo contenta,
Mercè l’alta Bontà Divina e Santa,
Solo il continuo freddo mi tormenta,
Che di neve ogni colle ancor si ammanta;
A germogliar comincia la sementa;
il porchetto pesò libre quaranta,
La pecora ha figliato, io sono incinta
Sol per opera tua, che non son finta.

Devi saper di più che la provista
Del grano, altri due mesi non mi basta,
Se un altro rubbio* o due, non se ne acquista
Non avrò certo con che far la pasta;
Ho terminato il farro, e ciò mi attrista,
Son di lenticchie ancor priva rimasta,
Li figli senza scarpe, io sono vesta**,
E l’esattor sovente mi molesta.

Dunque marito mio sia tua la cura
Di provveder la tua famiglia cara,
Intanto io ti saluto, e son sicura
Che non avrai per me la voglia avara,
Ti salutano i figli, e con premura
La tua Benedizion chieggono a gara
E ti saluta il buon curato ancora;
Addio, che altro da dir non ho per ora.

Dal generale naufragio della rustica musa d’un tempo, quando nell’amore la cortesia era d’obbligo e la ricerca di bellezza spingeva a imitare i grandi poeti con versi a volte maldestri scritti negli stazzi o nelle capannucce fumose, si è salvato molto poco o nulla. Da parte nostra, abbiamo avuto la sorte di salvare dall’oblio due lettere in ottave conservate nella memoria di un vecchio pastore di Villa Massi (Ca’ Massu) una frazione di Leonessa. Un tempo erano scritte a matita in un quaderno, assieme alle minute di altre lettere inviate dalla campagna romana a una ragazza del borgo con la quale il pastore pensava di costruire un onesto futuro. Le cose andarono diversamente e il nostro finì con lo sposare un’altra donna. Quel quaderno, conservato tra i ricordi personali, finì nel fuoco. Così la consorte intese distruggere il ricordo d’una donna colpevole d’aver fatto cantare il cuore del suo uomo prima che lei entrasse nella sua vita. Rammento che l’anziano pastore, mentre attendevo con ansia che i led del registratore iniziassero a palpitare, chiuse gli occhi. Un’espressione di sofferenza gli si dipinse sul viso. Iniziò a balbettare frammenti di versi. «No me llu recordo!… No me lli recordu!…». Poi, il volto si distese e i versi proruppero, uno dietro l’altro, formando le ottave tra qualche lacrima serena.

1.
Signorina, vi giuro, il mio pensiero
il mio ideale è sempre fisso a lei,
certo, mi creda, quel ch’io dico è vero
io non riposo più solo per lei.
La tua persona mi tormenta e credo
che vivere più a lungo non potrei
se la tua persona impertinente
del mio gran male non si sente niente.

Io lo prego quel Dio, l’Onnipotente,
che possa restaurar la vita mia,
quello che porge aiuto a ogni dolente
quel che fa nascer tanta simpatia.
Il mio cuor l’ha fatto prepotente
e va cercando la persona tua
credi ragazza che ti pongo il cuore:
la mia vita ha bisogno del tuo amore.

Se sei una donna che sai ripensare
al mio voler non devi contraddire
ché giorno e notte sempre sto a pensare
dal gran pensiero mi sento morire.
Perciò ho voluto questo a lei svelare:
se la fortuna non mi vuol mentire
io vorrei mischiar la nostra razza,
vorrei sposare a te, bella ragazza.

Io nel mondo ne vidi abbastanza
belle ragazze e di tanta delizia
ma no’ la vidi con quella tal grazia
la quale è lei e di tanta mestizia.
Lei sola è la persona che mi sazia
lei sola è la gran donna di letizia
lei sola è la più bella tra le belle
somiglia alla maggiore delle stelle.

Scrivo ‘sto foglio con una speranza
d’essere al mondo il più felice nato
se contraria la trovo ora, ragazza,
credi sarei il più sventurato
più con ragazze non farei alleanza
con altre donne non sarei sposato
soltanto lei, dolce leggiadria,
farà felice la persona mia.

Voi siete al mondo la gran donna pia
che fece nascer Dio sol per amare
amerai dunque la persona mia
perché io ti amo con perfetto amore.
Per te sento il mio cuore scappar via
dentro il mio petto più non vuole stare
soltanto per il tuo viso tanto bello
ch’è tanto tempo che io penso a quello.

Per te sento il mio cuore meschinello
e vincere non posso il grave affanno
attendo sempre quel mesetto bello
di rivederti già mi par mill’anno.
Io son nato tra gli altri poverello
per questo riconosco il grave danno
ché la tua persona e leggiadria
attende uno d’alta signoria.

Quella sarebbe la rovina mia
come ti ho scritto nel foglio passato
se sei contraria alla domanda mia
meglio sarebbe che io non fossi nato.
Or la saluto perché conveniva,
il suo diletto uomo innamorato
s’affida a lei e il nome ora le dice
si chiama, certo, Antonio De Felice.

2.
Son tanti mesi che io lontano vivo
con la speranza di dimenticarti
ma sappi, bella, che quando di te son privo
somiglio a un giocatore senza carte
e se col gioco si rimane privo
delle grandi ricchezze e dei miliardi
un vero giocator che al gioco tiene
privo di carte vive in aspre pene.

Così succede a me che ti vuol bene
tutta la mia passion verso di tene
la volsi quando ti conobbi bene
ché mi accendesti il sangue nelle vene
ma visto che il tuo cuore non contiene
altro che crudeltà verso di mene
io me ne allontanai contro mia voglia
e ancora vivo fra tormenti e doglia.

Ancora il mio cuore trema come foglia
da quando ti lasciai, o Maddalena,
sento che si consuma e mi fa noia
saperti bella e mi volti la schiena.
Spero che l’hai cambiata la tua voglia
che ora mi accetti con faccia serena
perciò ti mando questa letterina
per dirti la mia idea, o signorina.

A li miei occhi sei la più carina
che in tutto il mondo non ha paragone
ti vorrei assomigliare a una regina
soltanto che ci manca il seggiolone*.
Di altri ornamenti la tua personcina
è già dotata da nostro Signore
ora io penso che ci vuol marito
perciò mi offro per tuo amante fido.

In questo mondo mi trovo smarrito
e cerco una persona in compagnia
che mi vuol bene e che mi porge aiuto
che mi accompagni in una retta via.
Perciò da quando io ti ho conosciuto
ho scelto te come persona pia
che possa soddisfare la mia voglia:
rispondi presto e levami ‘sta noia.

Vedo ogni pianta rinnovar la foglia
così rinnoverai il tuo pensiero
se prima il mio parlar ti facea noia
ora spero mi accetti volentieri
spero che non sei dura come soglia
altrimenti mi mandi al cimitero
perché a ‘sto mondo do’ c’è forza e pace
nulla gli manca a chi il lavoro piace.

Io già mi sento di essere capace
di provvedere tutto il necessario,
se la fortuna poi sarà fallace
Iddio comanda il condottier per mare.
Ora ti dico fai come ti piace
e ti saluto perché è necessario
or chi ti ama il nome qui ti dice
si chiama certo Antonio De Felice.
_____
*seggiolone: il trono