Dal lato settentrionale del pianoro di Osteria Nuova (al vecchio Posto di Ristoro abbandonato e in riuso) fino al bivio di Nerola, il Catasto Gregoriano riporta addirittura tre lunghi tratti di strade parallele: l’attuale “Vecchia Salaria”, sul fianco occidentale di Monte Calvo, che si snoda tra gli oliveti di Ponticelli e di Scandriglia; l’antica Salaria romana, ancora riconoscibile – in alcuni tratti – alla Madonna della Quercia; e quella indicata – sempre nel Catasto Gregoriano – come «Strada Romana», che l’attuale “Nuova Salaria” a Osteria Nuova ricalca fedelmente, fino al bivio della Via Farense per Toffia, dove stava l’Osteria di Carlo Corso (il cui nome rimane nella toponomastica stradale). Un tratto perfettamente rettilineo, lungo più di quattro chilometri, che arrivava fino all’Osteria di Nerola, sotto il paese, come un vero e proprio tratturo, assistito da cinque osterie, posti di ristoro, a indicare la rilevanza di quell’arteria, in una zona ancora oggi sede della fiera del bestiame e non solo. Testimonianza del tratturo della transumanza, lungo la Via Salaria, sono i segni della presenza pastorale a Monte Calvo di Osteria Nuova, sulle creste del Monte degli Elci, fra Canneto, Fara e Toffia, e il villaggio di capanne, realizzato dai Talocci, famiglia di armentari dell’alto Reatino, nella seconda metà del XIX secolo, per consentire lo stanziamento stagionale dei pastori, sul modello dei villaggi pastorali della Campagna Romana e dell’Agro Pontino. Talocci è divenuto successivamente frazione stabile del Comune di Fara, con il nome stesso dei fondatori. A documentare la presenza dei villaggi di capanne di Talocci restano le foto primi Novecento di Filippo Rocci⁸. Le osterie lungo le strade, eredi delle antiche stazioni di posta, sono state per secoli punti nodali del traffico locale di persone, merci e greggi. Le osterie lungo i percorsi della transumanza, soprattutto quelle nei dintorni di Roma, sono state il principale punto di promozione del prodotto tipico di Amatrice, gli spaghetti all’amatriciana, a iniziare dai primi anni del Novecento. Le osterie sono state veri e propri empori, luoghi di fiere più o meno importanti, di cui rimangono edifici, spesso abbandonati o riutilizzati, oppure i toponimi o solo il ricordo; eppure hanno svolto il loro ruolo, in molti casi, fino agli anni Sessanta del secolo scorso.

Campagna Romana

Sulla Via Salaria, tra Rieti e Passo Corese, tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento, c’erano ancora tredici o quattordici osterie e posti di ristoro, riportate nelle cartografie ufficiali: l’Osteria al Ponte delle Ruote a sud di San Giovanni Reatino; l’Osteria del Vento, a poca distanza verso Ornaro; l’Osteria di Ornaro; l’Osteria della Capannaccia, al bivio per Rocca Sinibalda; l’Osteria Sant’Antonio a Ponte Buida; l’Osteria Fiacchini a Cerdomare; il Posto di Ristoro al bivio per Castelnuovo di Farfa; l’Osteria Nuova, poco distante sulla strada per Castelnuovo, ai Massacci; l’Osteria di Carlo Corso sul pianoro di Osteria Nuova; l’Osteria dei Sorci al bivio basso per Ponticelli e Scandriglia; l’Osteria di Nerola, al bivio per Nerola; l’Osteria della Mentuccia e l’Osteria Cisena, a occidente di Borgo Quinzio; l’Osteria di Passo Corese, nei pressi della Stazione ferroviaria. Verso Monterotondo c’era la famosa Osteria del Grillo, oggi apprezzata trattoria.
Sulla strada regionale 313 ci sono ancora le tracce catastali dell’Osteria di Lugnola, dell’Osteriola, attestata anche da un’epigrafe, che Barth definirebbe una lapide, e dell’”Ostaria” di Configni, con alcune abitazioni ed il vecchio mulino ad olio. Al bivio di Vacone ci sono ancora le case che furono dell’Osteria; e più a sud l’Osteria di Ponte Sfondato, luogo storico di stanziamento delle greggi, diventato da tempo un villaggio. Infine c’è ancora l’edificio ristrutturato dell’antica Osteria del Tancia, al valico tra Monte San Giovanni in Sabina e Poggio Catino, che svolge ancora la sua funzione storica di luogo di accoglienza⁹.
Naturalmente le osterie non mancavano nemmeno nel tratto della Salaria che risale la Valle del Velino, fino alla Valle del Tronto. A parte le locande presenti ad Antrodoco e Posta, le osterie su strada più rilevanti erano l’Osteria di Giacca Bianca, al bivio per Cittareale, e l’Osteria della Meta nei pressi del Valico di Torrita (Roberto Marinelli).

Sulle strade principali, sugli snodi viari, crescevano gli empori, e quel groviglio di fiere e mercati a cadenza settimanale, mensile, oppure a data mobile, in relazione a particolari momenti festivi. Ogni comune, quasi ogni villaggio e centro di commercio, aveva le sue fiere. Nei primi quattro mesi dell’anno c’erano in media sei, sette fiere al mese in altrettanti paesi della Sabina. A maggio si raddoppiavano; a giugno e luglio riprendevano il ritmo normale, per triplicarsi abbondantemente ad agosto e settembre, per poi riprendere il ritmo precedente, fino a tutto il mese di dicembre. Se consideriamo il ritmo con cui si svolgevano fiere e mercati, negli anni Venti del Novecento, anche nelle zone della Valle del Turano, del Cicolano e della Valle del Velino, in area abruzzese, con Rieti che faceva da punto di raccordo, possiamo immaginare un traffico sicuramente considerevole su ogni strada, ogni carrareccia e mulattiera del circondario reatino; costituito da carri a trazione animale, carrozze, qualche autocarro e pochissime autovetture, ma soprattutto muli, asini, cavalli, gente a piedi e carovane di pecore .
La pastorizia transumante ha percorso tutte le strade, adeguandosi ogni volta al tempo che attraversava. Così negli anni Trenta del Novecento, nonostante le difficoltà, le crisi ricorrenti dalla metà del secolo precedente, c’era ancora chi credeva nella sua tenuta: la pastorizia non deve morire si diceva nelle manifestazioni pubbliche dell’epoca, e si legiferava in tutela della transumanza a lungo raggio. Al trasporto delle greggi con i treni, si aggiunse quello con gli autotreni, sviluppatori negli anni Cinquanta.
Il 18 settembre del 1927 la città di Rieti, appena elevata a nuova provincia, con l’annessione dei territori abruzzesi del Cicolano, della Valle del Velino e dell’Amatriciano, fu designata sede del primo congresso degli armentari del Tavoliere, promosso dalla Sezione armentari della Confederazione fascista degli agricoltori. La scelta cadde su Rieti in quanto considerata ancora, a quell’epoca, «centro nativo della pastorizia nell’Italia centrale». Di quella iniziativa ne offre un ampio e dettagliato resoconto il Quaderno di documentazione contemporanea, curato dal reatino Giacomo Caprioli, originario di Petrella Salto nel Cicolano, che tra le sue molteplici attività – tra le quali quella di storico e archeologo autodidatta – ha annoverato anche quella di membro della Confederazione fascista degli agricoltori, occupandosi in modo specifico proprio dei problemi degli armentari. In quella occasione confluirono in città gli armentari di tutta l’Italia centrale e della Puglia, riempiendo il Teatro Flavio Vespasiano, nella mattinata, e il salone papale in Vescovado nel pomeriggio.

«Visi del tutto nuovi di pastori di altre regioni – riferisce Giacomo Caprioli – e visi di pastori conosciuti nelle ricorrenti stagioni di transito e di ogni plaga, recanti o avvolti, o sventolanti, i labari, i gagliardetti e gli stendardi della Corporazione. Notasi fra gli altri quello dell’Aquila …» .

Amatrice nei disegni di E. Mezzetti (1979)

Si trattò degli argomenti economici scottanti, quali i costi dell’affittanza dei pascoli in Campagna Romana e nel Tavoliere, ma anche in Sicilia, appoggiando la proposta di commissioni specifiche per la transazione bonaria delle vertenze sugli affitti degli erbaggi, nell’eterna disputa tra latifondisti, conduttori dei fondi, armentari e produttori caseari, di lana e di pelli. Si discusse animatamente dell’eterna problematica della promozione del pecorino romano, che dal 1919 veniva esportato in America. Il podestà di Rieti, Mario Marcucci, nel suo discorso di saluto, ribadì la rilevanza economica della pastorizia in quegli anni, facendo riferimento alle statistiche locali, indicando il numero straordinario di pecore che annualmente transitavano a Passo Corese, «che è il passo forzato, l’ingresso nella provincia di Rieti, per la via Salaria. Il numero complessivo noverato a questo punto – riferisce il podestà Marcucci – è in media di oltre un milione di capi ovini, senza contare altro bestiame sussidiario dell’azienda armentizia medesima. Inoltre, nel solo tratto della Salaria da Rieti a Cittaducale – egli dice – ne transitano più di mezzo milione». Evidentemente il resto si dirigeva verso l’Appennino Umbro marchigiano.
A Michele De Matteis, studioso aquilano della pastorizia e delle sue problematiche economiche, si deve la ricostruzione statistica approssimata della popolazione ovina nell’Abruzzo aquilano dal XIV secolo al XX, e quella più specifica e dettagliata, dal 1906 al 1931. Secondo quella statistica si sarebbe passati da circa otto milioni di pecore nel XIV secolo a poco più di centomila nel 1931 (Roberto Marinelli).

Note

⁸ Filippo Rocci e la fotografia pittorica. Ritratto di gentiluomo con camera, a cura di M. Miraglia, Roma, Argos 1987.
⁹ R. MARINELLI, Umbri colli, solenti clivi. Lineamenti storici dei territori dell’olivo in Sabina, cit.