AMATRICIANA: CIBO TRANSUMANZA E SENSO DEI LUOGHI

All’interno della storia dei rapporti tra Amatrice e Roma, una tappa fondamentale è la vicenda della diffusione dell’amatriciana, attualmente conosciuta come ricetta tipica della cucina romana che tuttavia non nacque a Roma, né ad Amatrice, ma nei punti di contatto tra questi due poli.

Nel XVIII secolo, a Napoli, Genova e più in generale nelle città del Mediterraneo, si diffondeva la pasta secca lavorata a macchina, un alimento che, per semplicità e capacità nutritive, avrebbe conquistato la cucina popolare mediterranea. La pasta asciutta di semola di grano duro era facile da conservare e trasportare e, soprattutto, costava poco.

Nel 1759, in conseguenza del patto di Vienna, i territori dell’Abruzzo Citeriore e Ulteriore venivano trasferiti dai Medici di Firenze ai Borbone: fu in questo periodo che i pastori amatriciani entrarono in contatto con la pasta asciutta napoletana che, essendo molto più economica di quella romana, in breve conquistò la cucina popolare. È intorno a questo periodo che dev’essere nata la prima versione della amatriciana: la gricia, o amatriciana bianca, o pasta «caciu e untu», un «piatto perfetto, nato dagli usi e dalle tradizioni popolari più antiche» (Sensi, 2009, p. 43).
Lo storico della gastronomia Secondino Freda riporta una leggenda popolare sull’origine del nome:

in una delle frazioni situate nella meravigliosa zona di Amatrice, al di sopra del lago Scandarello, fosse vissuta una bella donna dalle fattezze ammirevoli pur raggiunta l’età matura e qualche capello grigio. A lei venne attribuito, per distinzione, il titolo dialettale di gricia; e avendo ideata e realizzata, a suo tempo, questa semplice ed ottima vivanda, il soprannome acquisito col passare di bocca in bocca, insieme al buon sapore del piatto, diede titolo ad esso di spaghetti alla gricia (Freda, 1983, p. 174).

Una tesi in passato accreditata che oggi molti escludono è che la gricia sia nata a Roma. Innanzitutto si ritiene che almeno fino al 1700 a Roma non si vendesse il guanciale, uno degli ingredienti essenziali della ricetta: «non figurava tra i generi alimentari venduti dai “pizzicaroli” ed aveva probabilmente una diffusione molto limitata, legata all’uso di farsi in proprio le specialità del maiale meno commerciate e più rare» (Sensi, 2009, p. 29). Il guanciale era invece diffusissimo nell’amatriciano. La Statistica del Regno di Napoli fatta stilare da Gioacchino Murat nel 1811 attesta che «le carni le più usitate sono di majale […] se ne fanno prosciutti, mortadelle, salsicciotti, salsicce e sanguinacci; e del grasso, lardo, ventresche, moccolari, strutto, ingoglie […] in Amatrice, contribuisce alla bontà delle mortadelle non tanto il modo di condirle e manipolarle, quanto il clima e la buona carne di majali, che provvedono alla limitrofa Provincia di Teramo» (Demarco, 1988, pp. 58-59).

Innanzitutto, quindi, un elemento determinante per ricostruire la nascita della ricetta è la disponibilità di materie prime. Il guanciale e il pecorino erano diffusissimi nelle montagne amatriciane, utilizzati in particolare dai pastori perché garantivano pasti semplici e nutrienti, perfetti per le condizioni spartane della transumanza. Alla disponibilità e versatilità di questi alimenti, si aggiunge che ancora oggi la versione originale della ricetta prevede l’utilizzo di una padella di ferro con manico lungo: un utensile tipico della cucina dei pastori (Sensi, 2009). L’insieme di questi elementi ha portato diversi storici della gastronomia (Freda, 1983; Gosetti della Salda, 1967; Jannattoni, 1998; Sensi, 2009) a ritenere che la gricia sia la ricetta originaria da cui è nata l’amatriciana e che entrambe appartengano alla cucina povera della Conca amatriciana. In accordo con questa ipotesi, però, l’incontro della gricia con il pomodoro quasi sicuramente non avvenne nelle montagne amatriciane.

A causa della scarsa adattabilità alle colture di media montagna, il pomodoro tardò ad arrivare nella Conca amatriciana. Fu solo a partire dal 1875, quando il piemontese Francesco Cirio introdusse i barattoli di pelati, che il pomodoro trovò largo impiego anche nelle cucine di montagna. Per questo motivo, è fortemente accreditata l’ipotesi che l’incontro tra la gricia e quel «pomodoro casalino che, insieme al guanciale amatriciano, sono i veri protagonisti di questo straordinario piatto» (Sensi, 2009, p. 46) avvenne in città. In Europa, i primi a riconoscere i pregi organolettici del pomodoro furono, alla fine del Settecento, i napoletani. Dato che, a partire dal XIII secolo, le terre amatriciane erano state ricomprese nella giurisdizione del Regno di Napoli, si ritiene che gli amatriciani ebbero modo di conoscere il pomodoro già da fine Settecento, tramite i contatti con Napoli.

Anche se è presumibile che l’incontro tra la gricia e il pomodoro avvenne a Napoli, si ritiene che la vera e propria diffusione di questa ricetta si ebbe a Roma, città che gli amatriciani avevano conquistato da tempo. Furono gli osti amatriciani insediatisi a Roma a far conoscere la ricetta e, così, ad affermare l’esistenza di una tradizione gastronomica che in origine era il prodotto di sapienze locali. Come testimonia un ristoratore romano di origini amatriciane: «una tradizione gastronomica vera e propria non c’era, la vita era grama nei paesini. La vita era du’ vacche, un po’ di grano che si portava al mulino e si faceva la farina per il pane, la pasta. La cucina vera e propria era misera» (Bernardino P., 16 febbraio 2019, Roma).

Se è quindi verosimile che l’origine della ricetta sia da attribuirsi «definitivamente e storicamente agli amatriciani» (Sensi, 2009, p. 46), è anche vero che la sua fortuna si è costruita a Roma. Nel corso del tempo, la cucina amatriciana ha lasciato un’impronta significativa nella tradizione romana al punto che, ormai, «quando si dice “amatriciana” si intende un piatto classico della cucina romana» (Bernardino P., 16 febbraio 2019, Roma). A questo proposito, il Dizionario romanesco alla voce «matriciano» riporta «originario di Amatrice», ma anche, in senso esteso: «poiché molti osti e trattori di Roma erano un tempo originari di Amatrice, “matriciano” è passato per estensione ad indicare genericamente un’osteria con cucina» (Ravaro, 2017). Questo rapporto osmotico tra la tradizione gastronomica amatriciana e quella romana rientra, più in generale, nel meccanismo di attrazione che nel corso del tempo Roma ha esercitato rispetto ai territori limitrofi. In questo senso, rispetto alla cucina romana, si parla di una cucina «riflessa» (Freda, 1983), nata all’incrocio tra contaminazioni e innesti.

Se quindi è certo che la tradizione gastronomica romana abbia assimilato quella amatriciana, assorbendo anche l’indotto economico da questa generato, è anche vero che tra fine Ottocento e inizio Novecento il mercato di Roma ha funzionato come circuito di espansione per la cucina amatriciana, permettendole di essere conosciuta e di affermarsi. A scala più ampia, la conseguenza di questo processo è stata la connotazione di Amatrice come territorio di eccellenza gastronomica. Questo processo è avvenuto attraverso meccanismi economici e culturali transcalari: mentre i ristoranti amatriciani acquisivano consenso e prestigio a Roma, ad Amatrice la gastronomia locale diventava una risorsa economica e territoriale, oltre che un simbolo.

In questo senso, è interessante capire in che modo negli ultimi decenni quest’identità gastronomica sia «tornata al paese», connotando l’economia e l’immagine locale, al punto da far diventare Amatrice «città degli spaghetti all’amatriciana».

Sagra, ritorni e turismo

La Sabina del secondo dopoguerra versava in condizioni di grande miseria: il 73% della popolazione era impiegato nel settore primario che tuttavia, tra la parcellizzazione delle terre che non permetteva la crescita delle aziende e l’arretratezza di strutture, mezzi e infrastrutture, faceva di Rieti una delle Provincie più povere d’Italia (Lorenzetti, 1992). All’indomani della guerra, l’economia dell’alta sabina si divideva tra una conversione industriale che stentava ad affermarsi e la grande crisi del mondo agro-silvo-pastorale, causata da decenni di emigrazione e abbandono delle terre.

Come in molti Comuni appenninici, anche ad Amatrice questo lungo processo di spopolamento è stato caratterizzato dal mantenimento di beni immobiliari e legami familiari: chi partiva, lasciava «su» case, terre e legami; motivi di ritorno che hanno permesso ai più di mantenere rapporti frequenti con il territorio amatriciano. Durante il boom economico, questi rientri regolari si sono trasformati nei flussi stagionali di un vero e proprio turismo di ritorno. Come racconta un ristoratore amatriciano, lo sviluppo di Amatrice come destinazione turistica ha portato una certa crescita economica e ha avviato una serie di profonde trasformazioni territoriali che hanno avuto come attori fondamentali quegli amatriciani emigrati che «tornavano al paese»:

qual è il fenomeno che si è verificato: qui c’è gente che da Amatrice è andata a Roma, chi a fare il cameriere chi l’oste. Con il tempo sono diventati gestori e hanno messo da parte qualche soldino e allora la dimostrazione di questo ascensore sociale che era salito era quello di farsi la casa al paese con un’abbondanza di spesa. E allora c’era la corsa a chi si faceva la casa più bella, più ricca, più attrezzata, più signorile…e questa era l’economia del paese. Perché poi, quando parte una costruzione, c’è tutto l’indotto… e così lavorano tutti quanti (Bernardino P., 16 febbraio 2019, Roma).

Intorno agli anni Cinquanta, si è cominciato a registrare un notevole sviluppo economico dovuto all’attività edilizia: alcune famiglie che iniziavano a «tornare su» durante le ferie, ristrutturavano case o ne costruivano di nuove, favorendo l’occupazione e l’economia locale. Questo processo – evidentemente connesso anche all’affermazione sociale di chi tornava al paese – è durato a lungo e ha avuto un impatto significativo dal punto di vista territoriale. Lo conferma il dato che, subito prima del terremoto, il patrimonio edilizio a uso abitativo del territorio amatriciano era costituito per due terzi da seconde case, ovvero abitazioni di soggetti residenti in altri Comuni, per la grande maggioranza a Roma¹.

Alla ripresa del mercato edile è conseguito un benessere complessivo di cui hanno beneficiato anche altri settori dell’economia locale: a partire dagli anni Sessanta, diverse aziende hanno iniziato a integrare le attività agro-silvo-pastorali con piccole attività ricettive, agri-turistiche o gastronomiche, in alcuni casi finendo per convertirle del tutto. In questo processo, è stato determinante l’intervento di alcuni di quegli amatriciani «ritornanti»: alcune famiglie che in quegli anni riprendevano a frequentare Amatrice hanno cominciato a portare sul territorio capitali economici, ma anche visioni e strumenti di innovazione territoriale. In questo senso, il ritorno al paese – seppur stagionale – di queste famiglie ha rimesso in moto l’economia e ha favorito un processo di innovazione che, negli anni, ha portato al pieno sviluppo di servizi e circuiti turistici.

In prospettiva geografica, il turismo svolge un’azione specifica all’interno dei processi di territorializzazione (Turco, 1988; Turco, 2012): l’attività turistica riorganizza l’apparato produttivo e commerciale di un sistema territoriale, interviene con strutture e infrastrutture, ma agisce anche sul piano simbolico, concentrando l’immagine di un luogo attorno a un simbolo. Un’idea tipica dei tourism studies è che alla base dell’industria turistica contemporanea vi sia una relazione transazionale tra host e guests (Smith, 1977) che ruota attorno al consumo: che si tratti di un’esperienza, una pratica o un patrimonio culturale, il turismo è una pratica sociale che si fonda sul consumo di una merce e quindi, in alcuni casi, sulla mercificazione di un patrimonio (Simonicca, 2016). In questo senso, rispetto al contesto territoriale in cui si iscrive, il fenomeno turistico non ha solo un impatto sul paesaggio, sulle risorse naturali, sui rapporti e le forme di produzione locali, ma anche sui processi immateriali che coinvolgono l’immagine di un territorio.

Nel caso di Amatrice, il processo di turistificazione si è costruito in modo specifico attorno alla gastronomia. Che il cibo funzioni come veicolo di affermazione identitaria e contenitore di significati è stato ampiamente riconosciuto dall’antropologia culturale (Neresini e Rettore, 2008). In particolare, Appadurai (1981; 1998) ha affermato il «valore semiotico» che hanno ricettari, feste e pratiche connesse al cibo nel costituire l’identità di una collettività. Nel caso di Amatrice, questo processo di costruzione identitaria attorno al simbolo gastronomico è avvenuto negli ultimi decenni e si è rafforzato in modo particolare a partire dall’istituzione della sagra degli spaghetti all’amatriciana.

La sagra è stata inaugurata nel 1966 da parte di quella che era una comunità demograficamente fragile, ma anche molto mobile, caratterizzata dal rientro periodico di quei «non residenti» che la rendevano – e la rendono – molto elastica nel numero. Alla funzione di aggregazione, la festa ebbe subito anche la funzione di promuovere la gastronomia locale, riconosciuta come risorsa territoriale da valorizzare.

La sagra di Amatrice. Fonte: La Repubblica

Come racconta uno dei fondatori: «il messaggio che dovevamo mandare era far conoscere il piatto […] Non volevamo fare concorrenza ai ristoranti» (Luigi B., 17 aprile 2019, Amatrice).

Dall’essere un evento aggregante «a servizio del popolo», la sagra è poi diventata parte di una vera e propria strategia di promozione territoriale realizzata attraverso la valorizzazione delle tipicità gastronomiche. A partire dai primi anni 2000, il Comune di Amatrice, insieme a enti di promozione territoriale e associazioni di categoria, ha intrapreso diversi percorsi di tutela e valorizzazione della produzione gastronomica locale: il guanciale amatriciano, il Pecorino amatriciano e la salsa amatriciana sono stati inseriti nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (P.A.T.)² del Lazio. Gli spaghetti all’amatriciana sono stati riconosciuti tra le Denominazioni Comunali d’Origine (De.C.O.)³ attraverso l’approvazione di un disciplinare di produzione che ne attesta la ricetta originale. Da ultimo, nel 2015 il Comune ha avviato il percorso per il riconoscimento della salsa amatriciana come Specialità Tradizionale Garantita (S.T.G.)⁴, un marchio di origine introdotto dall’Unione Europea per tutelare le produzioni caratterizzate da composizioni o metodi di produzione tradizionali. All’inizio di marzo 2020, la richiesta è stata accolta dalla Commissione Europea e la salsa amatriciana è diventata la terza S.T.G. italiana, insieme alla Mozzarella Tradizionale e alla Pizza Napoletana.

La proliferazione di riconoscimenti dimostra che negli ultimi anni, similmente ad altri casi, ad Amatrice la gastronomia è diventata un simbolo centrale nelle strategie di sviluppo locale. In questo processo, l’istituzione della sagra ha rappresentato un momento fondamentale: se, di certo, non si è trattato di un’«invenzione della tradizione» (Fontefrancesco, 2008)⁵, è stato uno dei presupposti del processo di branding territoriale (Turco, 2012) a carattere gastronomico che è seguito. Questo processo che ha reso Amatrice la «città degli spaghetti all’amatriciana», nel tempo specifico e «accelerato» (Saitta, 2015) dell’emergenza sta dando i suoi frutti.

L’Area Food di Amatrice

A pochi mesi dal terremoto, Amatrice ha ospitato uno dei cantieri di ricostruzione più grandi del cratere. Nel dicembre 2016, è stata inaugurata l’«Area Food»: una struttura per la delocalizzazione temporanea delle attività di ristorazione del centro di Amatrice, firmata dallo studio dell’Architetto Boeri e celebrata come uno dei simboli della «rinascita». Tuttavia, da alcuni studi sul campo (D’Angelo, 2019; Sabatini, 2020) è emerso che concentrando eventi, flussi e introiti, la struttura lascia in ombra le altre attività commerciali, delocalizzate in strutture distanti e non altrettanto pregevoli. Similmente a quanto accaduto anche con il «Deltaplano» di Castelluccio di Norcia, si tratta di progetti di ricostruzione – seppur temporanea – che generano divisioni e disfunzioni a livello locale. A questo si aggiunge che, per cubatura, entità di investimenti e tipo di discorso che li accompagna, questi progetti realizzano delle tipologie di commercio e fruizione dello spazio chiaramente ispirati al modello del centro commerciale urbano. In questo senso, si può parlare di «grandi opere» decontesualizzate e dagli effetti divisivi che non possono che essere considerate in relazione al progressivo affermarsi di politiche di sviluppo concentrate sulla vocazione turistica di questi territori. Ovvero: la realizzazione dell’Area Food, unita all’aumento di investimenti nel settore turistico e gastronomico, fanno prospettare un appiattimento delle politiche locali sulla sola funzione turistica. Tra i più recenti tourism studies è diffusa l’idea che il cosiddetto modello della «monocultura turistica» sia insostenibile sia dal punto di vista ambientale, sia da quello economico e sociale (D’Eramo, 2019). In questo senso, allora, difronte al rischio che un territorio costruisca percorsi di sviluppo troppo schiacciati sulla vocazione (gastro)turistica, c’è da chiedersi quali siano le alternative possibili e come costruirle.

Ecco, quindi, il senso di una lettura geo-storica del territorio che, a partire dalla ricostruzione delle forme produttive e insediative locali, può dare elementi di analisi e spunti progettuali.

Ecosistemi

La storia di Amatrice, come quella di altri Comuni appenninici, è attraversata da figure ricorrenti: le transumanze, i commerci, le migrazioni e i ritorni parlano di un territorio caratterizzato da una forte, strutturale, mobilità. La mobilità che per secoli ha permesso a questi luoghi di rimanere arroccati dov’erano, isolati ma inseriti in una rete di relazioni. Incardinati sulla montagna, ma parte di un sistema di scambi, legami, affezioni. Dalla cultura pastorale e mercantile, a quella commerciante e imprenditoriale, al centro e al cuore dell’economia e del sistema socio-culturale amatriciano c’è sempre stata la mobilità e, in particolare, una relazione forte con Roma.

In un momento in cui alla crisi demografica ed economica del sistema appenninico si sommano le crisi dovute a continue, devastanti, emergenze, per questi luoghi diventa urgente individuare delle strategie che sappiano coniugare lo sviluppo territoriale con la sostenibilità, intesa in senso economico, ambientale, sociale, culturale. Questa concezione della sostenibilità deriva dall’approccio territorialista che, di fronte all’assodata insostenibilità dei modelli di sviluppo neoliberisti globalizzati, ripensa lo sviluppo come processo «locale» di crescita «autosostenibile» (Magnaghi, 2010). Senza approdare a visioni anti-moderniste, questa prospettiva ritiene che per progettare percorsi di sviluppo sostenibili si debbano recuperare le forme produttive, insediative e relazionali che, pur nelle fisiologiche evoluzioni, hanno caratterizzato l’organizzazione territoriale di un contesto. Volendo utilizzare questa lente per leggere le trasformazioni in corso in un territorio come quello amatriciano, si tratta di impiegare le potenzialità e le specificità del territorio per dare vita a percorsi di sviluppo altamente localizzati, coerenti, redistribuivi: circolari.

Nel caso di Amatrice, questa prospettiva porta a pensare che se, da una parte, la trappola dell’espansione ipertrofica dei circuiti turistici dev’essere evitata, dall’altra questo aspetto di mobilità talmente connaturato alla storia amatriciana dev’essere tenuto in considerazione. Se un modello di sviluppo interamente schiacciato sulla vocazione turistica è da considerarsi superato e insostenibile, diventa importante costruire strategie che sappiano considerare il territorio a tutto tondo, includendo tutti gli attori, anche e soprattutto quelli che stanno nelle retrovie e che tuttavia occupano ruoli fondamentali. Diventa cioè fondamentale elaborare idee di sviluppo che sappiano coinvolgere, da una parte, allevatori, agricoltori, produttori: i manutentori del territorio, quelle filiere corte da incentivare a scala locale e rendere competitive a scala translocale. Dall’altra, quella fetta di popolazione che è parte della comunità di Amatrice: gli amatriciani emigrati e ritornanti, attori che nel tempo si sono dimostrati capaci di portare non solo sentimenti nostalgici e proiezioni romantiche sul «paese», ma anche innovazione territoriale, investimenti e progetti di cura⁶. Attori che, ora più che mai, possono essere parte importante di un’idea di rinascita. Una rinascita a tutto tondo, integrata, coerente: ecosistemica.

L’economia di Amatrice storicamente si regge su alcuni elementi di cui uno, fondamentale: il collegamento con Roma che è la struttura sulla quale, storicamente si poggia tutto. Noi a Roma abbiamo il nostro alter ego, per noi Roma è qualcosa di nostro. Come pensiamo di vivere senza il collegamento con Roma che è economico, culturale, di collaborazione, di seconda, terza generazione. Poi, sul territorio che abbiamo? I servizi, l’agricoltura che deve specializzarsi e mirare sempre di più a prodotti di nicchia: diciamo il miele, le mele, le lenticchie. E poi il settore della zootecnia: allevamento delle bestie da carne e da latte. Accanto a questo pilastro, c’è l’altro che è il turismo. E su cosa si fonda il turismo? Sulla cucina e l’ambiente. Le nostre montagne, i laghi, le passeggiate, i boschi, le sorgenti, ossia tutto quello che fa parte di questo patrimonio naturale che il buon dio ci ha dato e che dobbiamo salvaguardare, perché sennò distruggiamo la nostra ricchezza (Luigi B., 17 aprile 2019, Amatrice) [Francesca Sabatini].

NOTE

¹ Nel 2011, dei 4.123 edifici adibiti a uso residenziale, solo 1278 risultavano abitati da soggetti residenti (ISTAT, 2011).
² Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione del’Agricoltura del Lazio: Prodotti tipici e regionali del Lazio, disponibile a: http://www.arsial.regione.lazio.it/portalearsial/prd_tipici/ ultimo accesso: 27-03-2020.
³ La De.C.O., a differenza dei marchi D.O.P. e I.G.P.., non è un marchio di qualità, ma un’attestazione approvata a seguito di delibera comunale. Approfondimenti su: https://www.comune.amatrice.rieti.it/registro-prodotti-de-co/ ultimo accesso: 27-03-2020.
⁴ Regolamento 2020/395, Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea, disponibile a: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=uriserv:OJ.L_.2020.077.01.0001.01.ITA&toc=OJ:L:2020:077:TOC  ultimo accesso: 27-03-2020.
⁵ Il riferimento è alle Feste dell’Uva, un tipo di festa diffusasi in diverse località italiane a partire dal 1930, come iniziativa del Ministero per l’Agricoltura per favorire il consumo di prodotti locali nell’ambito della politica di autarchia del governo fascista. Questo modello festivo in alcun modo tradizionale o «locale», si è radicato ed è sopravvissuto alla fine della dittatura fascista. Feste dell’Uva sono ancora celebrate, almeno, a Poggio Sannita (IS), Impruneta (FI) e Marino (RM) (Cavazza, 1997).
⁶ Si fa riferimento, tra gli altri, a due casi in cui i cosiddetti «ritornanti» sono stati protagonisti di progetti di cura e presidio del territorio amatriciano. A Capricchia e Configno, frazioni di Amatrice pesantemente colpite dal terremoto, nei mesi successivi al terremoto i proprietari di seconde case hanno dato un contributo fondamentale nella gestione dell’emergenza e nella realizzazione di progetti di ricostruzione autofinanziati. Nelle loro diversità, questi casi rappresentano best practices di ricostruzione autogestita di alto valore culturale e comunitario. Per approfondimenti, si veda: Sabatini, 2019.